La LucasArts, le avventure grafiche e mille bei ricordi

Lucasarts

La settimana scorsa, come tutti ormai saprete, è arrivata come un fulmine al ciel sereno la notizia che la Disney ha definitivamente chiuso la LucasArts.

Tutto il nerdoverso ha pianto all’unisono, come se fosse deceduto il nostro migliore amico. In effetti è successa una cosa molto vicina a questo.

Fiumi di parole sono stati scritti sulla vicenda, e sulla LucasArts. Io non volevo scrivere niente, rimanere un pochino distaccato, ma non ce l’ho fatta. Quella notizia mi ha fatto passare davanti agli occhi anni e anni di bei ricordi, di emozioni, quando, chiuso in cameretta con il fidato Amiga 500, impazzivo a cercare di risolvere uno di quei maledetti e assurdi enigmi, vivendo avventure meravigliose.

Alcuni di questi ricordi vorrei condividerli con voi… la parte triste del post è appena finita, dopo il salto si sorride… con i lucciconi agli occhi.

Mi ricordo che entrai in contatto con la LucasArts grazie al mio ex-amico Peo, il quale mi passò una copia pirata di Zak McKracken And the Alien Mindbenders per Amiga.

Zack McKracken era la prima avventura grafica su cui mettevo le mie manine sporche di Nutella. Era una cosa totalmente innovativa: non dovevo premere tasti come un forsennato, non c’era da sparare, da tirare in porta, da superare macchine. C’era da passare il puntatore del mouse su tutti i pixel dell’immagine cercando qualcosa da cliccare. Sotto c’erano una serie di comandi in inglese da combinare con le cose trovate con il metodo precedente. Questa cosa in teoria doveva portare a risolvere degli enigmi e ad andare avanti con la storia.

In questo sistema di gioco c’era una grossa falla per me: era tutto in inglese. All’epoca l’unica cosa che sapevo in inglese era: “The cat is on the table“, ma né lo stramaledetto gatto, né il fottutissimo tavolo, sembrava potessero aiutarmi. Un dizionario d’inglese invece sì.
Eppure, nonostante l’enorme fatica nel cercare di tradurre quello che vedevo su schermo, non riuscivo a staccarmi dal gioco. Leggevo le battute, le traducevo in circa 20 minuti e ridevo. Mi sentivo molto scemo a ridere di battute lette 20 minuti prima, ma era tutto così fantasticamente appagante che mi spingeva ad andare avanti.

Il fatto di mettersi lì a cercare di trovare soluzioni assurde ad enigmi astrusi, scritti da gente fuori di testa, in inglese per di più, mi faceva scricchiolare qualcosa nel mio testone: erano gli ingranaggi che cominciavano a muoversi. Questo movimento faceva rilasciare endorfine ed io ero felice.

Allora non lo sapevo, ma quella ricerca di soluzioni a problemi ed enigmi mi stava insegnando a ragionare fuori dagli schemi e a sviluppare lo spirito d’osservazione e quello d’iniziativa. Oggi gli scienziati chiamano questo processo di trovare soluzioni alternative ai problemi: Pensiero Laterale. Oggi c’è gente che ci fa un mucchio di soldi sfruttando il Pensiero Laterale. Io evidentemente non ho pensato abbastanza lateralmente.

All’epoca la pirateria non era il male della società moderna, che fa tanto piangere i cantanti e i produttori che fanno canzoni e film dimmerda, non era ancora quel capro espiatorio che giustifica che i giochi costino un occhio della testa e durino meno della pisciata di una farfalla.
All’epoca, erano i primi anni ’90, quando andavo al negozio di videogiochi dietro casa, che era in uno scantinato, c’erano due commessi che copiavano i giochi tipo catena di montaggio. Erano lì in bella vista, con due Amiga 500 e due Atari ST, a duplicare giochi nuovi come se non ci fosse un domani, per la folla che intasava quel negozietto. Li vendevano a 9000 lire il primo dischetto e 4500 tutti gli altri del gioco. Con Peo facevamo a metà, compravamo un gioco e dividevamo le spese duplicandocelo a vicenda.
Inutile dire che io ero sempre in quel negozio.

In quel negozio comprai il fantastico Indiana Jones E L’ultima Crociata, tie-in dell’omonimo film.
Un gioco grandioso che ti faceva ripercorrere il film interagendo con esso, con le situazioni allungate ed enigmi totalmente nuovi… ad esempio per uscire dalle fogne di Venezia bisognava avvitare una vite con l’anello sul soffitto della fogna e poi tirarla con la frusta di Indy, mentre si sentiva l’epico Tattatattaaa Tattatàààà, et voilà potevi uscire.
Ci impiegai settimane ad arrivare in fondo al gioco. Alla fine, di fronte al Templare, dovevo scegliere il Graal. Li provai tutti, nessuno andava bene, morivo sempre. Lì imparai a imprecare come ogni buon scaricatore di porto deve saper fare. Alla fine scoprii che il Graal giusto nelle copie pirata non c’era. Come sistema di protezione, se duplicavi il gioco, appariva un errore nella copia e quello ti cancellava il Graal. Fottuti bastardi quelli della LucasArts!
Per la cronaca il gioco sono riuscito a finirlo con l’emulatore dello SCUMM su Pc, anni dopo. Sono un tipo tenace e rancoroso.

Dopo Indy lessi su K che il nuovo gioco della LucasArts era un certo LOOM, nuovissima, sbirluccicante, rivoluzionaria avventura grafica.
Non ci dormivo la notte ad aspettare l’uscita di LOOM.
Quando arrivò mi fiondai a comprarlo a occhi chiusi. Immaginate la sorpresa che ebbi quando, a casa scoprii, che era sì un’avventura della LucasArts, ma il metodo di controllo era rivoluzionato. Per andare avanti non c’era niente di scritto, ma bisognava trovare delle melodie, all’inizio facili, poi sempre più difficili e articolate. Inutile dire che su LOOM ci ho buttato lacrime e sangue per finirlo.

Poi vennero i due Monkey Island. Tutt’ora i migliori della produzione LucasArts, tanto che li presi originali e tutt’ora li ho.
Un conglomerato di battute, ironia, sarcasmo, enigmi folli, sfide a insulti, sputi, grog, fantasmi di temibili pirati, solo per diventare dei veri pirati.

Erano pieni di chicche e trovate esilaranti, in Monkey Island 2, ad esempio, se ti perdevi in un bosco trovavi un telefono dal quale potevi chiamare il centralino della LucasArts per farti dire come uscire.

Fu con quelli che decisi di imparare l’inglese, perché, sempre in Monkey Island 2, ad un certo punto bisognava chiudere una cascata, ma mancava il rubinetto. Impazzii una settimana a girare tra le isole per cercarlo, magari l’avevo lasciato indietro. Preso dalla disperazione cominciai ad usare tutte le cose che avevo nell’inventario. L’ultima cosa che provai fu la roba più assurda: la scimmia. Funzionò! Guybrush Treepwood tirò fuori quella maledetta scimmia dalla tasca la piegò a mo’ di pappagallo e chiuse la cascata. Sembra una soluzione assurda, ma pappagallo in inglese si dice Monkey Wrench, io il gioco ce l’avevo in italiano. Capite bene che riuscire a risolvere un enigma del genere, con un incrocio di lingue, era una roba che ti faceva uscire il sangue dal naso per lo sforzo.

Qualcosa, però, cominciava a non andare. Indiana Jones E Il Destino Di Atlantide, avventura grafica avulsa dalla serie di film, aveva ben 11 dischetti da 1,4 Mega. Una vera tortura per noi amighisti.
Quando si dava un comando, esempio Apri la Porta, Indy andava alla porta e l’apriva, poi appariva a schermo il messaggio: Inserisci Disco 4, lo inserivi e dopo il caricamento, Inserisci Disco 6…

Inserisci Disco 3

Inserisci Disco 2

Inserisci Disco 4

Inserisci Disco 8

Inserisci Disco 10

Inserisci Disco 4

Inserisci Disco 6

… e così via. Alla fine, dopo 458 cambi di disco,  si sentiva il rumore della porta che si apriva. Un incubo giocarlo anche se avevo 2 floppy per Amiga, interno e esterno. Ad un certo punto avevo anche pensato di comprarne altri 9 esterni e collegarli tutti in parallelo, per sfuggire a quel devastante valzer di dischetti che durava intere mezz’ore.

Poi arrivò la metà degli anni ’90, i miei interessi in tema di videogiochi stavano venendo spazzati via dagli interessi in tema di morbide ragazze e compagne di classe. La presa delle avventure della LucasArts non era più forte come prima.
I successivi Full ThrottleSam And Max Hit The Road li giochicchiai, ma non mi rimasero impressi in mente, ormai obnubilata dagli ormoni. Però mi ricordo che Sam And Max aveva raggiunto un tale livello di non sense che lo trovai difficilissimo… oppure il pensiero laterale era andato a farsi fottere sostituito da un pensiero frontale che puntava in un’unica direzione.

Il canto del cigno delle avventure della LucasArts arrivò nel ’98 con il meraviglioso Grim Fandango. Questo gioco sembrava aprire la strada verso nuove mirabolanti avventure. La grafica era totalmente diversa: non più sprite, ma personaggi in 3D su sfondi dipinti e non più lo schermo diviso a metà, con i comandi in basso, ma si apriva il menù quando si cliccava su qualcosa.
Eppure quella fu l’ultima avventura grafica. Dopo Grim Fandango, ironicamente, morirono. Il pubblico non era più interessato e la LucasArts venne dirottata sulla produzione dei giochi di Star Wars.

Nel cuore la LucasArts è uno di quei nomi che mi fa sempre alzare la testa quando lo sento. Ha fatto la storia dei videogiochi insieme a Nintendo, Sega e compagnia bella. Non si può parlare di videogiochi se non si ha giocato ad almeno una avventura grafica della LucasArts, con la loro grafica scadente per i nostri tempi, ma meravigliosa allora.

Per la cronaca, e per gli eventuali precisini della minkia, lo so che ho saltato Maniac Mansion e Day Of The Tentacle, ma quelli li ho giocati sull’emulatore dell SCUMM anni dopo, quando ho recuperato anche Indy 3, Full Throttle e Sam And Max Hit The Road. Ero già grande, quindi non rientrano in quel periodo meraviglioso, purtroppo. L’effetto nostalgia però era forte a quei tempi.

Alla LucasArts, personalmente, devo molto sia in termini di divertimento, sia in termini personali. Sembra esagerato, ma se non fosse stato per loro, e per i Guns N’ Roses, l’inglese, ad esempio, non l’avrei mai imparato e ora non sarei un Nerd.

Addio LucasArts e grazie di tutto.

 

 

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Scritto da: MrChreddy

"Sono la prova scientifica che si può vivere una vita intera in completa assenza di cervello"

12 pensieri su “La LucasArts, le avventure grafiche e mille bei ricordi

    • Colpa… o merito?

      Io l’ho rigiocato poco tempo fa quando è uscita la versione rimasterizzata in HD… però quasi subito ho tolto la grafica bella e l’ho giocato con quella vecchia, non potevo sopportare di vedere bene Guybrush, dovevo immaginarmi com’era da quello spixellato :D

  1. Stesso excursus,
    Monkey Island, folgorazione,

    una sfida contro se stessi, la propria intelligenza, la propria arguzia

    e non solo una questione di pulsanti.

    Cosa c’è di meglio che riunirsi con gli amici e potersi sfidare sull’intelligenza?
    Magari ammirando la grafica e facendosi due risate con l’ironia di Guybrush?

    Niente, pensavo.

    Come mi sbagliavo.

    Una sera ti addormenti e ti svegli che non sei più lo stesso.
    Ti eri addormentato pensando:

    “e se nel gioco usassi la corda col bastone che picchiò il cane che morse il gatto che mangio il topo che al mercato il pirata comprò?”

    e ti risvegli pensando:
    “cos’era quel brivido tra i capelli quando la mia compagna di classe mi ha salutato col bacino?”

    (nel senso di piccolo bacio, ero meno di un ragazzino, accidenti)

    Ecco, da quel momento non sei più lo stesso.
    il sangue smette di irrorare il cervello e vaga per lidi migliori,
    la visione laterale (se mai io l’abbia avuta)
    frontale
    parietale
    occipitale
    cardinale
    orientale
    occidentale
    temporale
    e soprattutto

    triviale

    confluisce tutto nel medesimo punto.

    E ti tocca risolvere enigmi ben più complicati
    e non c’è rivista che pubblichi soluzioni

    anzi, spesso la soluzione manco esiste.

    Fu un processo irreversibile che mi accomiatarono, grosso modo, dalla Lucasarts.

    Ma oggi, anni dopo,

    sul mio ipad c’è l’app di Monkey Island 2.

    Non ci gioco, perché lo finii già all’epoca.
    Ma spesso basta risentire quella musichetta

    per riattivare il flusso canalizzatore,
    riaccendere la De Lorean
    e tornare da quell’adorabile ragazzino

    che ormai da troppi anni
    e con un po’ di rammarico

    ha lasciato il posto al pirla che vi scrive.

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