Questo è un post generato in un paradosso spazio temporale. Mentre sto scrivendo non è ancora uscito il quinto “Die Hard“, però quando leggerete questo post sarà uscito e io l’avrò visto.
Non ho ancora idea se mi piacerà oppure no. Non so se sarà un bel film o se avranno rovinato John McClane, il mio personaggio preferito.
Però, al momento, ho voglia di parlare della saga di Die Hard e di come ha rivoluzionato il genere degli Action Movie.
Vi avviso, il post è un po’ lungo, leggetelo nel tempo libero, che poi se vi licenziano date la colpa a me.
Spiegare perché il primo “Die Hard: Trappola Di Cristallo” è ancora un capolavoro, a 25 anni di distanza, non è una cosa facile.
Si potrebbe parlare della regia perfetta di John McTiernan, della sceneggiatura, delle interpretazioni di Bruce Willis, Alan Rickman e di tutti gli altri. Ma sarebbe riduttivo prendere in considerazione solo queste cose, perché il risultato finale è maggiore della somma delle singole componenti.
Bisogna innanzitutto contestualizzare il film nel periodo e nell’anno di uscita.
Sono gli anni ’80. Ronald Regan, ex attore hollywoodiano, è presidente degli stati uniti. È un epoca di machismo e americanismo in ogni cosa che ci arriva da oltre oceano, c’è la corsa agli armamenti, la guerra fredda, la sfida al comunismo. A noi ci viene mostrata la ricca, bella e sbirluccicante faccia dell’America, senza farci vedere il mostro che c’è sotto, e il sogno americano lo inseguiamo anche noi, inculcato a forza da tutto quello che ci passa davanti.
In quel periodo il cinema è dominato dai film e dalle produzioni di Steven Spielberg, tutto quello che tocca e produce diventa oro, almeno fino al 1985. In contrapposizione ai tipici film spielberghiani, fatti di buoni sentimenti, poca violenza, bambini ed eroi “puri” dai grandi ideali, cominciano ad uscire film crudi, violenti, dove l’eroe tutto d’un pezzo ammazza qualsiasi cosa che gli si metta d’avanti.
I protagonisti sono la Segourney Waver di “Aliens Scontro Finale“, c’è “L’Implacabile” Arnold Schwarzenegger, con i suoi “Commando“, “Codice Magnum“, “Terminator“, “Predator” e infine c’è Sylvester Stallone con i suoi “Rambo“, “Rocky“, “Cobra“.
Sono tutti “eroi” e personaggi inarrestabili, in cui non ci si identifica, ma gli si cammina accanto curiosi di sapere che arma useranno dopo e come uccideranno il prossimo nemico che gli attraverserà la strada.
Segourney Weaver, poi, ha cambiato genere di film, è sparita per un po’, lasciando un bel ricordo della sua Ripley. Stallone invece ha continuato imperterrito con il tono troppo serioso dei suoi personaggi sovrumani, senza macchia e senza paura, che sapevano sempre cosa fare, sempre un passo avanti ai nemici, mai colti in fallo, tanto da sfociare nel ridicolo involontario e la gente non aveva più voglia di credere a quello che vedeva. Schwarzenegger, invece, ha capito che qualcosa doveva cambiare e ha cominciato darsi alle commedie e a stemperare i suoi film con quel pizzico di ironia con cui digerire le cose incredibili su schermo.
In mezzo a tutto questo, nel 1988, esce un film d’azione con protagonista un comico che le uniche cose degne di nota che aveva fatto erano una serie di telefilm, “Moonlighting“, e un film comico/romantico con Kim Basinger, “Appuntamento Al Buio“.
Il film in questione è “Die Hard: Trappola di Cristallo” e il protagonista è Bruce Willis. Anche se all’inizio doveva intitolarsi “Commando 2” e il protagonista doveva essere un certo Arnold Schwarzenegger e per fortuna non è stato così.
“Die Hard” spezza completamente con i film e gli eroi venuti prima, proponendo qualcosa di completamente nuovo.
John McClane non è indistruttibile come Schwarzenegger e non ha idea di quello che sta facendo, improvvisa attimo dopo attimo, viene ferito, sanguina, sempre sul punto di schiattare se non fosse per una dose pesante di culo. Non è serio e pieno di sé come Stallone, anzi continua a fare battute, si autocommisera si prende per il culo, piange e si sfoga con il suo amichetto di radio Sergente Al Powell, interpretato da Reginald VelJohnson subito prima di diventare il vicino di casa di Steve Urkel.
L’azione si svolge tutta in un grattacielo escheriano fatto di corridoi, stretti cunicoli di areazione e vertiginosi salti nel vuoto.
Il nemico, l’Hans Gruber di Alan Rickman, è un nemico fuori dagli schemi, intelligente, con la prontezza di spirito di fingersi uno degli ostaggi quando si trova faccia a faccia con McClane, invece di provare a sparargli e basta. Insomma la sfida è più una partita a scacchi in cui il protagonista e l’antagonista devono improvvisare le mosse a seconda di quello che fa l’altro.
I personaggi di contorno non sono assolutamente banali. Holly Gennaro (ma nel film è scritta Gennero), Bonnie Bedelia, la moglie di McClane, non è la sprovveduta principessa che deve essere salvata, ma è una donna con una personalità, che cerca di difendere il marito e la famiglia come meglio può nella pessima situazione in cui si trova. Harry Ellis, Hart Bochner, è il tipico yuppie degli anni ’80: arrivista, venduto e talmente stronzo da suscitare un moto di simpatia verso Hans quando gli spara in fronte.
Il primo “Die Hard” non è assolutamente un film banale o un semplice film d’azione, è un capolavoro su tutti i fronti. Crea un nuovo eroe, più umano, con i suoi difetti e una vita semi rovinata, come John McClane per tutta quella generazione di ragazzini che, venuti su a suon di “E.T.” e “I Goonies“, non avevano mai conosciuto i personaggi interpretati da Robert Mitchum, Steve McQueen, Humprey Bogart, Clint Eastwood, Charles Bronson e Paul Newman, perché troppo “vecchi” e della generazione dei loro papà.
Il film ha, giustamente, un successo strepitoso. Bruce Willis viene lanciato nell’Olimpo degli attori action in un nanosecondo. John McClane diventa un icona e la sua battuta: “Yippee Ki-Yay Motherfucker!” entra di diritto nell’enciclopedia dei migliori tormentoni del cinema.
In Italia la battuta è diventata “Yppi Yà Yè pezzo di merda!“, sussurrata per la prima volta alla radio ad Hans, che ci sta come parafrasi, poi è detta in modo magistrale da Roberto Pedicini. Ma non solo la battuta è stata cambiata, anche il titolo con cui esce in Italia è diverso, si chiama “A Un Passo Dall’Inferno (Trappola Di Cristallo)“, senza il Die Hard, che in lingua originale, a differenza di quanto si creda, significa anche “cocciuto”, il che rappresenta bene il carattere di McClane. Poi, con l’uscita del seguito e le varie riedizioni in Vhs e Dvd, il titolo cambia riacquisendo il “Die Hard“.
La 20th Century Fox, capendo di avere per la mani la gallina dalle uova d’oro, decide che deve uscire un seguito. John McTiernan però rifiuta, così viene assunto un pupazzetto di nome Renny Harlin che, non sapendo né leggere né scrivere e dovendo fare un sequel di un film di successo, pensa bene di rifare lo stesso identico film per filo e per segno, ma ambientandolo in un aeroporto. Non cambia né il periodo dell’anno, Natale, né il McGuffin, la moglie in pericolo. Il tutto seguendo la logica, prettamente videoludica, del more of the same, ti ripropongo le cose che ti son piaciute, ma più volte e più grandi.
Il film, del 1990, è “Die Hard 2: 58 Minuti Per Morire“. In Italia esce con il titolo di “58 Minuti Per Morire: Die Harder“, che non ha molto senso, in quanto l’aereo su cui c’è Holly ha 90 minuti di autonomia, ma se si fosse chiamato “90 Minuti Per Morire“, poi la gente pensava di andare a vedere il seguito di “Fuga Per La Vittoria“…
In ogni caso il film, oltre ad essere una copia carbone dell’originale, manca di qualcosa: non ha un cattivo degno di nota come Hans Gruber.
Certo McClane è sempre lui, ironia e tutto il resto, ma la vicenda prende di meno e il risultato è mosciarello e un po’ anonimo, un po’ il marchio di fabbrica di Harlin come regista.
In italiano manca anche la frase tipica di McClane, perché diventa: “Buon decollo figlio di puttana!“, detta da un altro doppiatore di Bruce Willis, Oreste Rizzini.
Nel ’95 esce il terzo capitolo: “Die Hard: Duri A Morire“, traduzione pedissequa di “Die Hard: With A Vengeance“.
John McTiernan torna dietro la macchina presa e fa la cosa più intelligente che potesse fare: fa finta che “Die Hard 2” non esista, un capitolo apocrifo, e dirige un sequel diretto del primo.
La mano di McTiernan si vede tutta. La scacchiera ora è tutta New York, presa d’assedio dal fratello di Hans Gruber: Simon Gruber, interpretato alla grande da Jeremy Irons, un altro cattivo con un certo spessore, non il solito cialtrone armato fino ai denti.
Anche l’azione è totalmente diversa, non ci sono più i cunicoli claustrofobici del primo film, ma il traffico esasperante di New York, ostacolo alla corsa forsennata di John McClane e la sua nuova spalla Zeus Carver, un magnifico Samuel L. Jackson. Ora il problema di McClane non è più trovare un paio di scarpe, per non correre a piedi nudi sui vetri, o procurarsi le munizioni per l’MP5, ma risolvere gli enigmi di Simon, approntati apposta per distrarre la polizia dalle sue vere intenzioni: rubare l’oro della Federal Reserve di NY.
Ancora una volta, dietro le macchinazioni terroristiche del cattivo di turno, si cela solo la cupidigia e l’arricchimento facile, segno che gli anni sono passati, ma i valori effimeri e i problemi profondi sono gli stessi di quasi 10 anni prima.
Certo c’è anche la vendetta, ma è un fine secondario allo scopo principale, diciamo che è la ciliegina sulla torta.
Nel primo e nel terzo film, gli atti terrostici sono un mezzo per ottenere potere e ricchezza. Non è così diverso dalla vita reale.
Questa volta, il tormentone è “Yppi Yà Yè figlio di puttana!“, un misto tra la fedeltà all’originale e quella all’italiano del primo film. Il doppiatore, stavolta, è Claudio Sorrentino, che rimarrà per il resto della serie.
Il terzo Die Hard ha un discreto successo, nonostante sia al livello del primo, ma ci vogliono 12 anni prima che si riesca a fare un sequel: “Die Hard: Vivere O Morire“, adattamento dell’intraducibile originale, “Live Free Or Die Hard“. Tutto sommato ci sta, anche perché “Vivi Libero O Muori Male” è un titolo abbastanza brutto per un film.
Questo quarto capitolo è il più sottovalutato della saga, benché sia effettivamente un gran quarto capitolo. Ha un sacco di difetti che purtroppo non vengono mascherati dai pregi.
Dal film precedente riprende lo stile del buddy movie. Non c’è più il mitico Zeus di Samuel Jackson, ma stavolta c’è un antipatico e saccente nerd interpretato da Justin Long. Il personaggio funziona poco, caratterizzato e interpretato male, troppo stereotipato e lontano anni luce dal mitico Zeus, infatti nessuno si ricorda il nome. Primo grosso difetto.
Il secondo difetto è l’eccessiva lunghezza del film e la poca concretezza. Seguendo la geometria tipica della serie, l’azione si svolge su tutta la costa est degli Stati Uniti, John McClane e il bamboccetto, continuano a correre avanti e indietro, senza sosta, alla ricerca di un modo per fermare Thomas Gabriel, Timothy Olyphant pericoloso hacker che sta mettendo in ginocchio l’America. Vengono continuamente inseriti personaggi, anche oltre la metà del film, e questo dà l’idea di una eccessiva dispersione, di voler allungare il brodo e si fatica a seguire la storia.
Terzo grosso difetto è il cattivo non troppo convincente. Timothy Olyphant è anche bravo nella parte, purtroppo Gabriel non può rivaleggiare con i due Gruber.
Però ha anche i suoi pregi che me l’hanno fatto apprezzare.
Prima di tutto l’azione, ben diretta e orchestrata, dove anche le cose più incredibili sulla carta, vedi macchina della polizia usata per abbattere un elicottero o lo scontro tra l’F16 e il camion sulla rampa della tangenziale, risultano credibili. Il merito è sostanzialmente del regista Len Wiseman, quello dei primi due “Underworld“, che se c’è una cosa che sa fare bene è proprio dirigere le scene d’azione, scrivere i film invece proprio no.
Seconda cosa la morale del film. Anticipa di qualche anno i temi dell’acclamato “007 – Skyfall“: “McClane, sei una sveglia analogica in un era digitale“. Il mondo è cambiato, i terroristi non fanno più saltare in aria i caveau delle banche per portare via l’oro con il muletto, ora fanno tutto attraverso i computer, usando virus, rubando codici per transazioni miliardarie. I soldi non sono reali, sono dati informatici che corrono da una parte all’altra del mondo in pochi secondi. Le città possono essere paralizzate da dietro un computer e McClane non ha nessuno da prendere a calci nel culo per farlo smettere.
John McClane è ancora ancorato al passato, non si è evoluto, vive ancora credendo che il governo può sistemare tutto. Non si rende conto che il suo amato governo non esiste più è solo un pupazzetto in mano alle grosse corporazioni, agli industriali, alle multinazionali e ai media.
A me sinceramente, al netto dei difetti, è piaciuto più la seconda volta che l’ho visto e l’ho rivalutandolo moltissimo. L’ironia tipica della serie non manca, Joh McClane non è stato snaturato e tutto sommato il film funziona egregiamente.
Nella riuscita del film di certo non guasta la presenza di Maggie Q e Mary Elizabeth Winstead.
Il tormentone viene cambiato nuovamente rendendolo aderente all’originale: “Yippee Ki-Yay figlio di puttana!“, dimenticandosi delle vecchie traduzioni in italiano che, essendo un tormentone, un minimo di continuità male non faceva.
Ora manca solo il quinto capitolo: “Die Hard – Un Buon Giorno Per Morire“, di cui parlerò domani per finire la mega carrellata della serie.
Intanto mi è venuta voglia di farmi una maratona John McClane…
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Scritto da: MrChreddy
"Sono la prova scientifica che si può vivere una vita intera in completa assenza di cervello"
troppe maratone in questo periodo.. c’è anche quella di iron man che sta per arrivare.. tornando al discorso principale condivido quasi tutto.. in 58 minuti per morire hanno sbagliato a dividere il peso della storia in due cattivoni con l’aggiunta sul finale di un Franco Nero che il più delle volte ha un espressione “ma che cavolo sto facendo?”
la storia fotocopia poteva anche forse starci se.. no.. non ci sta.. è una cialtronata.. :D
il capitolo 4.0 non sono riuscito a farmelo piacere.. mi sono impegnato.. (vero non gli ho dato una seconda possibilità) ma era troppo esasperato il concetto sveglia analogica in un mondo digitale.. il bimbominkia in coppia non da nulla.. anche li.. fai un film senza nessuno spessore e lo infarcisci di effetti e scene d’azione spettacolari.. ma non è fare un film.. io lo ritengo un paciocco con dentro McClane (il mitico), mettici un Jason Bourne e vedrai che avrai lo stesso effetto.. un filmetto fatto e finito sulla scia di Bourne…
il tre invece è epico.. perfetto… alla scena del container pieno di rottami, ho esclamato al cinema “che figlio di puttana!” :D era totalmente coinvolgente.. per non parlare dell’enigma dell’elefante. A casa l’ho dovuto rifare per mettermi il cuore in pace dopo 4 epistassi croniche avute durante la visione!
La maratona Iron Man me la sono fatta per Avangers, in realtà maratona Marvel…
Per il 4.0, non so, McClane ci sta ancora, con Bourne sarebbe stato più serio, prova a riguardarlo, anche io la prima volta ero rimasto un po’ così, poi rivedendolo invece l’ho apprezzato di più.
Il 3 è il 3, non ci sono storie, scritto bene, girato meglio, personaggi perfetti, non c’è niente che non vada nel 3. Solo l’inizio è da applauso. Qual è l’enigma dell’elefante, al momento mi sfugge :)
ops.. scritto male.. l’enigma della fontana dell’elefante.. quella dei due boccioni d’acqua.. ;-)
Ah, ok.
Sì, anche io poi mi sono messo a studiarlo, che la prima volta non l’avevo capito XD
Davvero un peccato che il quinto capitolo sia PURA SPAZZATURA. O almeno, per me lo è.
Il quarto l’ho visto al cinema, e appena uscito ho provato un senso di delusione. Quando l’ho rivisto in dvd mi è piaciuto talmente tanto che lo rivedo almeno 2 volte all’anno.
Sarebbe interessante un approfondimento di Ultimate Jar Jar ;)
Un approfondimento sul 4°?
Provo a chiederglielo, vediamo se ha voglia di farlo :D
Grande!